Letture d'Agosto: "Quella mareggiata del 2008", incipit del racconto di Pino Cacucci.
La nostra sorpresa di Ferragosto è l'incipit del racconto che Pino Cacucci, autore fra gli atri romanzi di "Puerto Escondido" e del recente "Frida" dedicato a Frida Kahlo, ha scritto per il libro "Racconti di Mare", curato da Mauro Ferraresi dell'Università IULM di MIlano, edito da Persephone edizioni, promosso da Acqua dell'Elba e presentato in anteprima SEIF - Sea Essence International Festival.
Sarebbe passata alla storia dell’isola come la grande mareggiata del 2008. Il giorno prima, il 27 novembre, Dario stava rientrando in tutta fretta da un’immersione davanti a Capo Stella, dove aveva cercato la carcassa di un aereo da caccia tedesco,e stando ai racconti dei vecchi amici elbani, spesso sentiti dai padri ormai scomparsi, in quella zona doveva essersi inabissato un Messerschmitt 109 che aveva avuto la peggio in un duello
con uno Spitfire inglese.
Ma cominciava a temere che fosse una diceria, del resto non pochi velivoli erano precipitati in quel mare durante la guerra, e a distanza di tanti anni diventava sempre più difficile individuarli sotto gli strati di sedimenti, alghe e incrostazioni.
Dario scrutava il cielo carico di nuvoloni neri e teneva il regime del motore quasi al massimo: doveva raggiungere Porto Azzurro quanto prima, perché era stato annunciato un peggioramento nel giro di ventiquattr’ore, e il mare si stava ingrossando a velocità preoccupante.
Secondo i bollettini meteo, il “probabile fortunale” avrebbe impattato contro la costa sud-est, anche se era difficile fare previsioni più precise,
con i venti che variavano improvvisamente.
A raffiche di maestrale subentravano folate di grecale e un teso scirocco a creare vortici. Insomma, pensò Dario: la burrasca perfetta, quando i venti variano e si scontrano all’impazzata. Ed era proprio quello che stava vedendo. Ma entro un paio d’ore sarebbe stato al sicuro.
Il motore diesel della vecchia Altair ronfava senza perdere un colpo. Era affidabile, quella barca a vela che, a essere rigorosi, veniva denominata motor sailor, ma Dario le vele le usava di rado, a meno che non ci
fosse a bordo qualche amico per dargli una mano alle manovre.
Una vetusta motor sailor del 1939, inglese purosangue, che chissà come era arrivata nel Tirreno, e peccato che non ci fosse un diario di bordo per sapere quante ne aveva viste, nella sua lunga vita. A Dario piaceva fantasticare che Altair avesse partecipato all’evacuazione delle truppe inglesi a Dunkerque, quando, alla fine di maggio del 1940, migliaia di imbarcazioni salparono dalle coste meridionali dell’Inghilterra per andare a salvare i superstiti del corpo di spedizione britannico e delle armate francesi in disfatta, nell’ultima ridotta in quel lembo di sabbia sulla costa all’estremo nord, tra Calais e il confine con il Belgio.
Fantasticheria che aveva, però, un piccolo concreto avallo, anzi tre: i fori di pallottola nello scafo, nei quali Dario, con pazienza e tanto tempo da perdere durante le serate alla fonda, aveva scavato con la punta del coltello da sub fino a tirare fuori tre ogive di proiettili di mitragliatrice, ben conservate dal legno in cui si erano incastrate. Dalle approssimative misurazioni si era convinto che fossero del calibro 7,92, cioè lo stesso della MG34 tedesca.
Dunque, nelle serate a bere vino nella cantina di Leo a Capoliveri, sosteneva che senza dubbio la Altair aveva partecipato all’operazione “Dynamo” a Dunkerque: affermazione accolta con iniziale ammirazionedai bevitori, poi tramutatasi quasi subito in lazzi e burle. Lui rideva con loro, ma in cuor suo pensava che fosse un peccato, che le barche non potessero raccontare la propria storia; era convinto che ogni barca avesse una sua anima, ma, purtroppo, non la voce.
Le onde stavano alzandosi oltre i due metri, presto avrebbero superato i tre, e più avanti, chissà: decise di non tagliare in mare aperto verso Punta Morcone, ma di bordeggiare lungo il golfo tenendosi vicino a Zuccale. Davanti a Pareti, gli venne il dubbio se cercare un attracco dove solitamente ormeggiava l’Altair quando il vento spirava dall’altra parte, ma decise di raggiungere la cala di Mola: lì c’era la sua boa, che aveva ancorato sul fondo lui stesso e sapeva quanto fosse robusta la catena e quanto
pesante la base di cemento.
Superata la spiaggia dell’Innamorata, passò al largo degli isolotti delleGemini, e come ogni volta lo sguardo andò da solo lassù, verso la casa sulla scogliera di Calone, e mormorò tra sé il solito saluto:
«Ciao, uomo delfino…».
(...)
Scoprite il resto del racconto sul libro "Racconti di Mare".