RACCONTI

  1. RACCONTI

L'Essenza dei ricordi

I ricordi servono a farci rifiorire. Ogni giorno, prendendo la metropolitana da San Giovanni, guardando i vagoni sfrecciarle davanti velocissimi, Benedetta ripensava alla frase che sua nonna le ripeteva da piccola prima di farla addormentare. “A cosa servono i ricordi?”, chiedeva. “A farci rifiorire”, rispondeva la nonna. Benedetta immaginava il corpo magro e rugoso della sua nonnina trasformarsi in un sinuoso gambo di rosa e la sua chioma bianca e vaporosa aprirsi come un bocciolo rosso rubino, e le veniva da ridere. “Ti fa ridere?”, le diceva col sorriso.

“Quando i ricordi fan ridere, vol dì che son belli”. Era il loro piccolo rituale, il loro momento di intimità. Dopo la doccia, infilava una canottiera e sgusciava sotto le lenzuola, aspettando che la nonna entrasse in camera a raccontarle una storia per farla addormentare. Non erano favole ma ricordi d’infanzia, eppure surreali lo stesso, con bambini che correvano scalzi e mangiavano pezzi di pane rannicchiati in grotte nascoste tra gli scogli, che collezionavano conchiglie, ricci di mare e coralli, che dormivano all’ombra di una pineta, che avevano un coniglio per amico, o una capretta, bambini che la notte si addormentavano contando le stelle. Erano “i ricordi del mare di nonna”, della sua vita all’Isola d’Elba, prima che il nonno arrivasse da Roma per una vacanza e la portasse via, ancora adolescente, per sposarla. Benedetta non era mai stata sull’isola ma la sognava spesso, fin da bambina.

Sognava di correre anche lei scalza sulla sabbia bollente senza vestiti né orari, una piccola selvaggia in simbiosi con la natura, circondata da animali parlanti. L’Isola d’Elba era il suo scrigno magico, la fiaba segreta, il luogo dove nella sua mente succedevano solo cose belle, ed è lì che scappava ogni volta che l’atmosfera al Ministero degli Esteri, per cui lavorava, si faceva pesante e le scadenze incombenti. “Papà, quando andiamo sull’isola?”, chiedeva da piccola. “Presto, ti prometto che presto ci andremo”, rispondeva lui. Non succedeva mai. Lavoravano tanto, i suoi genitori, avevano un negozio e non amavano viaggiare. Quando Benedetta compì 18 anni cominciò a girare l’Europa e dopo la laurea si concesse un viaggio a New York. Ogni estate pensava all’isola ma, per un motivo o per l’altro, il momento giusto per andarci non arrivava mai, per i suoi amici c’era sempre un viaggio più esotico da fare, e l’Elba ormai era diventata per lei un luogo dell’anima, il simbolo di una vita ideale, lontana dalla durezza di Roma. Forse, si chiedeva, a mancarle era il coraggio. A frenarla era la paura di rimanere delusa. E se quel posto non fosse stato poi così come l’aveva immaginato? Che ne sarebbe stato dei suoi ricordi, della sua magica via di fuga?

Tra le spiagge finissime e le acque dai mille colori dell’Isola d’Elba ogni cosa brillava di sfumature pastello e profumava di antico e genuino, di sua nonna in primis, che ormai non c’era più, e non poteva perdere quel tesoro. Un po’ le dispiaceva che quei ricordi restassero cristallizzati come sogni, e un po’ tutta quella malinconia le faceva compagnia, la aiutava. Era la sua favola della buonanotte. Scese alla fermata di Piazza di Spagna.

Era una giornata di sole caldo, uno di quei giorni di maggio in cui Roma sembra il centro del mondo. Aveva appuntamento in un bar di via Del Corso con la segretaria dell’ambasciatore del Senegal, che sarebbe arrivato in città a fine mese. Un incontro importante, da programmare nei dettagli, la aspettavano settimane impegnative. Non prendeva volentieri appuntamenti in centro ma la responsabile della segreteria alloggiava al San Carlo e aveva insistito. Benedetta era in anticipo, come sempre, e poteva permettersi di camminare con calma, dando anche un’occhiata ai negozi. Un lusso, per lei, che da dopo il diploma aveva quasi sempre solo studiato e lavorato.

A un tratto, lungo via Frattina, una luce color verde acqua catturò la sua attenzione. E poi una scritta, “Acqua dell’Elba”. Incredibile. La sua favola della buonanotte ora le dava il buongiorno. Entrò e quella luce di mare le riempì gli occhi, mentre un’essenza di ginepro e corbezzolo le avvolgeva i sensi. Viveva a Roma da che era nata e non conosceva né quel negozio né quel marchio. Aveva davvero lavorato troppo, si era concessa così poco. “Scusi..?”, chiese timidamente alla ragazza dietro al bancone. “Posso dare un’occhiata?”. “Molto volentieri”, rispose con un sorriso l’altra. Tutto, in quello spazio, parlava la lingua segreta che per anni aveva condiviso con sua nonna prima di addormentarsi e ogni cosa era avvolta dall’essenza, inebriante, di una natura selvatica e mediterranea, valorizzata da giochi di luce sobri e brillanti al tempo stesso.

Il colore dominante era il verde acqua, una pace per lo sguardo. Il negozio vendeva profumi, elegantemente confezionati e disposti in piccole nicchie, come gemme preziose. Quel luogo, per qualche ragione, le ricordava davvero sua nonna, aveva la sua stessa eleganza. Benedetta si commosse. La sua isola esisteva davvero. Quella ragazza dietro al bancone non poteva saperlo, ma tra quelle boccette custodiva un pezzo della sua vita, il più importante. Provò una delle fragranze e si sentì rifiorire. Il suo corpo era lo stelo, i suoi capelli i petali. Anche lei, come sua nonna, camminava scalza verso il mare, in cerca di conchiglie, anche lei dormiva tra le rocce, anche lei ascoltava in silenzio la natura vibrare, in totale simbiosi con alberi, animali, animali, sapori, fragranze. Quell’essenza color verde acqua dava finalmente voce ai suoi pensieri di libertà, una libertà semplice, interiore, fatta di quei piaceri antichi che per venticinque anni aveva rincorso senza mai davvero sfiorare. Fu allora che Benedetta capì. “Dove vengono fatti i profumi?”, chiese. “A Marciana Marina, sull’Isola d’Elba, in modo artigianale”, risposte la ragazza. È lì che avrebbe trascorso le sue vacanze, quell’estate. Comprò una confezione di acqua di profumo “Arcipelago donna” e uscì dal negozio col sorriso, come non le accadeva da tempo.

Mancavano pochi minuti all’appuntamento e, nonostante la responsabilità che l’attendeva, si sentiva piena di vigore. Rifiorita. Prese il telefono e chiamò la sua migliore amica. A giugno sarebbero andate a Marciana Marina, sulle tracce di un sogno. Di un passato che non era il suo ma che le apparteneva, più di ogni altra cosa. 

Un Natale tutto nostro

La sua squadra del cuore aveva perso di nuovo. Ogni tanto si domandava che senso avesse tifare per un club così piccolo, di una città di provincia, che non avrebbe mai avuto i giusti sponsor e non sarebbe mai salito in A. Le sue domeniche erano scandite da una ritualità che però lo entusiasmava e forse era proprio questo il motivo per cui amava così tanto il calcio. Prepararsi per arrivare allo stadio con gli amici, oppure organizzare insieme una trasferta in pullman verso la città avversaria e, prima di partire, fermarsi al forno a prendere panini con prosciutto e mortadella per tutti. Il tragitto verso il luogo della partita era la parte più divertente ma spesso non lo era altrettanto il ritorno, segnato amaramente dalla sconfitta. C'era però in questa routine una costante che non cambiava mai ed era sempre positiva: la cena a casa di nonna Celeste. Che la squadra vincesse o perdesse, quella casa che lo aveva visto barcollare da piccolo tra i primi passi incerti e che lo vedeva ora uomo fatto, un ragazzone di 1,80 m, varcare la soglia togliendosi la sciarpa da tifoso con aria mesta, quel nido lo accoglieva sempre con lo stesso identico amore.

Tra quelle mura lui non era Alberto, l'ultras sfortunato, l'assicuratore bravo a far firmare le polizze, il fidanzato fedele, ma semplicemente Albertino, un nipote, il più amato, al quale far trovare un piatto di tortellini caldi in inverno o uno spaghetto col pesto fresco in estate. I piatti che preparava nonna Celeste erano sempre squisiti, semplicissimi, ma di una bontà capace di fargli dimenticare l'esito infausto della giornata. Si sedeva a quella tavola e riconosceva gli odori che amava, i capisaldi della sua vita, sentendosi improvvisamente meglio. Nell'aria c'era sempre un che d'infanzia, e i ricordi si susseguivano tra una forchettata di pasta e un racconto della partita, che Celeste ascoltava con vero interesse, seduta di fronte a lui con le mani intrecciate e il sorriso. Mancavano pochi giorni a Natale e Alberto in poche settimane aveva collezionato già diverse delusioni, la squadra continuava a perdere e c'era solo da augurarsi che non andasse in zona retrocessione.

Che belle feste avrebbe passato! Lui e i suoi amici si sarebbero trovati al bar a discutere degli errori fatti dalla società, dall'allenatore e dai giocatori, ben sapendo in cuor loro che era una battaglia persa. Sua nonna stava poco bene in quei giorni, aveva preso una brutta influenza e il medico le aveva raccomandato di rimanere a casa e strapazzarsi il meno possibile. Senza di lei il Natale sarebbe stato ancora più triste, e fu proprio quel giorno, di ritorno dall'ennesima partita andata male, salendo le scale di quella casa, che davanti alla porta gli venne voglia di farle un regalo. La badante aprì sorridendo e portandosi un dito alla bocca - “Non svegliarla, dorme, oggi era molto stanca” - ma nonostante la malattia il brodo dei tortellini era stato preparato e bolliva sul fornello. Gli occhi di Alberto si riempirono di lacrime, guardò la donna e le strinse le spalle: “Aspettami qui che torno subito”, disse. Uscì di casa e scese le scale correndo, sapeva dove doveva andare. C'era una profumeria in centro che vendeva manufatti Acqua dell'Elba, capaci di raccogliere il profumo del mare. In pochi lo sapevano ma sua nonna si chiamava Celeste perché era nata in spiaggia, partorita in condizioni di fortuna durante una vacanza. Quel giorno l'acqua era limpida, talmente tanto da confondersi col cielo. Sua nonna raccontava sempre quella storia ad Albertino: “Sono nata col profumo del mare tra i capelli, l'acqua è il mio elemento”.

Purtroppo la loro città era lontana dal mare, vivevano nell'entroterra, ma Alberto ricordava che da piccolo, durante le vacanze, era sempre sua nonna ad accompagnarlo in acqua, agile e disinvolta tra le onde, felice di trovarsi lì almeno quanto lui. Dopo neanche mezz'ora era di nuovo sulla soglia di casa. Bussò e la badante aprì: “È arrivato Albertino signora, se la sente di alzarsi?”, disse ad alta voce. “Lasci stare, vado io”, rispose lui. Nonna Celeste era sdraiata e guardava il soffitto, aveva la pelle bianca e gli occhi acquosi, le mani leggermente tremanti. Alberto mise una mano sulla sua fronte che scottava e toccò le sue dita gelate: “Nonna non fare sforzi, resterò con te questa sera a farti compagnia, va bene?”. Lei lo guardò e sorrise, farfugliò qualcosa. Era il momento di darle il regalo: mancavano ancora dei giorni al 25 dicembre ma quello sarebbe stato il loro Natale. Poi Celeste sgranò gli occhi: che cosa stava facendo suo nipote Albertino? Cos'era quella scatola che aveva messo sul comò davanti al letto? Albertino tirò fuori un profumatore per ambiente Acqua dell'Elba Mare, un elegante flacone di vetro color verde acqua, e dispose all'interno i bastoncini di legno diffusori. Subito la stanza si riempì dell'odore del mare.

Celeste si tirò sui gomiti, era senza parole ma si sentiva già molto meglio. Quelle note di limone, rosmarino e giglio di mare la riempivano di vitalità. “È questo l'odore che hanno sentito i tuoi genitori quando sei nata, nonna, sono questi i primi profumi che hai respirato anche tu”. Nonna Celeste lo guardò e sorrise, col suo sorriso buono di sempre, e gli occhi le si riempirono di luce. Restarono così sospesi in quel ricordo per qualche istante o qualche minuto, aggrappati a una felicità impossibile da quantificare. Tutto comincia e tutto finisce, pensò Alberto, ma questo Natale tutto nostro non ce lo dimenticheremo mai. 

 

Il racconto “Un mare d’amore è stato scritto da Sara Ficocelli, scrittrice e giornalista per Acqua dell’Elba




Un mare d’amore

Era stato un anno difficile ma anche molto bello. A gennaio era nato il loro primo figlio, Giorgio, un bambino bellissimo e sorridente, affettuoso e sempre pronto a inventare un nuovo gioco: bastava dargli un pentolino o un cucchiaio, uno scolapasta o una penna e lui era felicissimo e cominciava a girare per la stanza gridando e agitando per aria i suoi nuovi tesori. Non servivano giocattoli per renderlo allegro. Mara quell'anno aveva capito che la vera gioia si nasconde nelle cose semplici e che è solo planando con leggerezza sulle cose che si riesce a viverle profondamente. Si sentiva più saggia e sicura di sé, ma c'erano voluti tanti mesi di pianti e fatica fisica per arrivare a questo nuovo equilibrio. Era stato per lei un anno di insonnia, mal di schiena, raffreddore, stress e nervosismo, perché i cambiamenti non sono mai facili. Aveva visto il suo corpo trasformarsi nella gravidanza in modo radicale, e guardandosi allo specchio stentava a riconoscersi. Le occhiaie solcavano impietosamente il contorno degli occhi e i capelli avevano un colore più spento. Si sentiva più saggia, certo, ma anche tanto più vecchia, e spesso trasformava il suo dispiacere per ciò che vedeva e sentiva in nervosismo e aggressività.

C'era solo una persona che continuava sempre, ogni giorno, a dirle quanto fosse bella: suo marito Michele. Michele era un maresciallo dei carabinieri che viveva la vita con sincerità e trasparenza, dicendo sempre quello che pensava. Cresciuto da genitori dolci e rigorosi, la sosteneva come una roccia in mezzo alla tempesta e le perdonava tutte quelle intemperanze e fragilità che lei stessa faticava ad accettare. “Sei fortunata, tuo marito è un uomo fantastico!”, le dicevano in coro le amiche e lei rispondeva alzando gli occhi al cielo e, buttandola sullo scherzo, ricordava quanto tempo lui passasse in bagno e le condizioni in cui a volte lasciava la cucina dopo averle preparato qualcosa da mangiare. Ma in realtà c'era davvero poco da lamentarsi, Michele era un uomo in gamba e lei lo sapeva. Non avrebbe potuto affrontare quell'anno così impegnativo senza il suo supporto straordinario, psicologico ma soprattutto pratico, perché suo marito era il tipo di uomo che cambiava il bambino, si ricordava gli orari in cui bisognava dargli le vitamine o i fermenti lattici, lo accompagnava dal pediatra, giocava con lui e quando lei era stanca di allattarlo lo prendeva in braccio e lo cullava fino a farlo addormentare.

Spesso Mara dimenticava quanto impegno mettesse ogni giorno suo marito nel fare il papà e si lasciava condizionare stupidamente dalle continue lamentele che le sue amiche riservavano ai loro compagni, continuamente accusati di non fare abbastanza e di scaricare su di loro tutto il peso della gestione familiare. A volte si attaccava a un errore, a una debolezza o a una dimenticanza di Michele per scagliarsi contro di lui e accusarlo della stanchezza che il suo corpo e la sua mente provavano, per poi pentirsene poco dopo. Quando aveva cominciato a diventare così poco empatica nei confronti dell'uomo che amava più di quanto riuscisse a dimostrare? Che fine aveva fatto la ragazza che non vedeva l'ora che arrivasse il weekend per fuggire al mare in vacanza col marito e riempirsi i capelli e gli occhi del profumo del mare? In quei 12 mesi aveva capito che si può sempre rinascere e imparare dai propri errori. Il suo corpo l'aveva messa alla prova, la vita stessa l'aveva messa alla prova, chiedendole di affrontare la sfida più grande di tutte, quella di mettere al mondo un altro essere umano e di prendersene cura diventando il suo unico e principale punto di riferimento. Aveva assolto egregiamente il compito finora, pagando forse in termini di stress un prezzo molto alto, ma ora era decisa a recuperare. Partendo proprio dal rapporto con Michele, la sua roccia in mezzo al mare in tempesta. Mentre pensava a queste cose, in un piovoso pomeriggio di dicembre, a pochi giorni dal Natale, proprio suo marito entrò in camera e le chiese se voleva una tisana col miele di tiglio, “che fa bene alla gola e fa sparire il raffreddore. Ti vedo stanca”, le aveva detto mettendole una mano sulla spalla. Mara si era girata e senza rispondere gli aveva dato un bacio, gettandogli le braccia al collo come non faceva da tempo. Lui era rimasto sorpreso e sgranando gli occhi aveva risposto con un sorriso, riempiendosi di nuova luce. “Sei molto più bella quando sorridi, sai?”, Le aveva detto guardandola incredulo.

“Torno tra un attimo con la tisana”. Così Mara aveva preso il cellulare e, spinta dal desiderio improvviso di fare qualcosa per lui, qualcosa di bello e romantico per ripagare almeno in parte tutto ciò che lui ogni giorno faceva per lei, aveva ordinato online sul sito di Acqua dell'Elba un flacone di Eau de Parfum Classica Uomo, con note di mandarino, limone e rosmarino, creato proprio per raccogliere in poche gocce il profumo del mare. I loro ricordi più belli erano proprio quelli dei loro weekend coi piedi nelle acque cristalline, circondati da spiagge color oro e sfumature di verde acquamarina. I profumi della macchia mediterranea e dei legni di mare rimanevano impressi nella sua mente per giorni dopo ogni vacanza ed era a quelle fragranze così semplici e naturali che legava il senso profondo del suo amore per Michele, un sentimento puro e autentico, che andava oltre le parole e gli errori e che durava indistruttibile ormai da quasi 10 anni. “Un piccolo pensiero per un grande uomo, l'uomo della mia vita, il primo e l'ultimo, l'unico”. Avrebbe scritto questo nel biglietto e si sarebbe presentata a lui tutta in ghingheri con il regalo che aveva pensato per lui e soprattutto con l’accessorio più bello e sensuale:

il suo sorriso, il gioiello che lui amava di più: aveva capito che l’amore per l’altro passa anche attraverso la cura di sé. Non vedeva l'ora che arrivasse quel pacchetto, sapeva che l'azienda toscana produceva manufatti di alta qualità ed era sicura che lui sarebbe stato felice di quel regalo. Ora era venuto il momento di bere la sua tisana, lui la stava chiamando. Fuori pioveva, ma la sensazione di aver fatto qualcosa per lui, di avergli donato qualcosa capace di esprimere il suo amore meglio di quanto lei riuscisse con le parole, la riempiva di calore. Era stato un anno difficile ma anche molto bello, l'anno in cui aveva capito che l'amore è come il mare: uno spazio infinito che richiede impegno e rispetto, e che offre sempre un orizzonte nuovo da guardare, da raggiungere insieme.



Il Fuoristrada

Sorriso smagliante, atteggiamento spavaldo, sigaretta elettronica sempre accesa: ormai Rachele i clienti rompiscatole aveva imparato a riconoscerli, tanto che i colleghi, scherzando, le dicevano che aveva “il dono”. “Rachele, va’ a dare un’occhiata, mi sa che questo è uno dei tuoi…”, le aveva sussurrato il capo indicandole il ragazzo in giacca blu intento a sbirciare gli interni di un fuoristrada ultimo modello. Erano quindici anni che lavorava in concessionaria e ne aveva incontrati tanti. Entravano in negozio con la stessa aria baldanzosa, a tratti nevrotica, come se dall’acquisto di un’auto da cinquantamila euro dipendesse la loro felicità. Quella mattina Rachele di avere a che fare con “uno dei suoi” non aveva voglia. C’era stata l’ennesima discussione con Ilaria e stavolta sentiva che c’era aria di rottura. Era stanca di non riuscire a comunicare con lei. I “pantani”, come ripeteva a suo marito, la innervosivano, e quello con l’Ilaria era diventato proprio questo: un pantano. 

 

Tutto era cominciato l’estate prima, durante una vacanza - una delle tante - all’isola d’Elba. Sdraiate in spiaggia a godersi il sole, aspettavano che i mariti tornassero dalla nuotata a largo che spesso facevano il sabato mattina. Il mare quel giorno era una tavola, anzi una tavolozza, tanto l’acqua era meravigliosa nelle sue mille sfumature di luce. Poi Ilaria aveva spezzato il silenzio. “Ho una relazione. Da qualche mese. Volevo dirtelo prima ma non avevo il coraggio”. Rachele aveva girato la testa verso l’amica, sfiorando con la guancia l’asciugamano riscaldato dal sole. Stessi capelli rossi, stesso neo dietro l’orecchio, stesso naso dritto, stesse lentiggini. Era sempre lei, l’Ilaria, l’amica di una vita, la ragazza che tutti scambiavano per irlandese e che si divertiva a rispondere in varesotto quando le chiedevano “Where are you from?”. Eppure, Rachele ne era sicura, quella sdraiata sulla spiaggia di Procchio accanto a lei era un’estranea. “Cosa?!”, aveva detto coprendosi gli occhi con una mano. “Conosco Gianni da vent’anni, è uno dei miei migliori amici…cosa stai dicendo?!”. Ilaria non aveva risposto, era rimasta immobile. Poi, sempre senza girarsi a guardarla, aveva abbozzato un sorriso. “Sapevo che non avresti capito. Ami troppo la perfezione, tu. Non ti piacciono le sorprese”, aveva detto amareggiata. Col senno di poi, a Rachele aveva forse dato più fastidio quella frase dell’intera faccenda. 

 

Aveva sostenuto Ilaria nei momenti più cupi, le era stata vicina anche quando era scappata di casa per una settimana dopo il divorzio dei genitori. Era sempre stata una ribelle e Rachele accettava - e anzi addirittura amava - questa parte di lei, indomabile e sorprendente, come i suoi capelli rossi. Con che coraggio ora le rivolgeva quelle parole? Come avrebbe potuto guardare Gianni in faccia quella mattina e le altre a venire, fingendo che andasse tutto bene? L'aveva messa nella situazione più scomoda e insopportabile e si era resa conto, in quel momento, di detestarla per questo. La vacanza era continuata senza scossoni ma Rachele aveva vissuto gli ultimi giorni come in uno stato di trance, promettendosi che prima o poi avrebbe perdonato. Ma non era mai successo. Di raccontare tutto a Ettore non le era mai passato per la testa e tantomeno di rivelare qualcosa a Gianni. Era una persona leale e anche per questo non sopportava i furbi. Quel giorno avrebbe tanto voluto essere lasciata in pace a rimuginare sull'ennesimo invano tentativo di far ragionare l’amica, intenzionata a portare avanti la relazione e a lasciare il marito, ma le toccava avere a che fare con “uno dei suoi”. 

 

“Buongiorno, posso parlare con lei per quello splendido bestione grigio là fuori?”. Il ragazzo con la giacca azzurra aveva un sorriso sfidante, l'espressione di chi è intenzionato a ricevere tutte le attenzioni possibili. Rachele lo aveva fatto accomodare e, senza troppi sorrisi, aveva acceso il computer e cominciato a elencargli le proprietà della macchina. “Non serve, so già tutto”, l’aveva interrotta lui. “In realtà sono qui per chiedervi quanto costa e quando posso avere le chiavi. Ho già deciso, lo prendo”. Lei lo aveva guardato senza entusiasmo. “Bene, sono felice. Allora vediamo…”, aveva detto. Lui a quel punto si era messo comodo, aveva accavallato le gambe e portato alla bocca una sigaretta elettronica, riempiendo la stanza dell’inconfondibile odore di quegli oggetti tanto di moda. “Abbia pazienza, ma qui non si fuma”, gli aveva intimato lei con un sorriso infastidito. “Ah no?”, aveva risposto il ragazzo accigliato. “E mi dica, seguite un protocollo per rendere la vita impossibile al cliente, specialmente se è uno che compra e non fa storie, o siete solo bravi a improvvisare?”. Rachele a quel punto aveva alzato gli occhi e lo aveva fissato, inebetita. Aveva ragione lui. Si stava comportando male. Sleale col cliente e col suo capo. Stava trascinando in ufficio i suoi problemi, e questo sì che era un errore. 

 

“Mi scusi, è che oggi sono di cattivo umore. Lei ovviamente non c’entra”, aveva detto abbassando lo sguardo. Il ragazzo era rimasto in silenzio, spegnendo la sigaretta. “Ora le apro una pratica e cerchiamo di trattarla nel migliore dei modi”, aveva aggiunto. “La capisco perfettamente, sa”, aveva detto lui dopo qualche secondo. Mettendo per terra la gamba accavallata, si era stirato i pantaloni con le mani. “Vede, due anni fa mia moglie voleva lasciarmi. Avevamo un bambino piccolo e lei di colpo mi disse che voleva tornare dai suoi. Fu un colpo durissimo, il peggiore della mia vita. Lavoro per una multinazionale, ero un giovane promettente in ascesa, ma cominciai ad andare in ufficio arrabbiato, come se la colpa di quel fallimento fosse dei miei colleghi, e non mia”. “Sua..?”, chiese Rachele. “Di sua moglie, vorrà dire”. Il ragazzo l’aveva guardata sorridendo. “No, mia. E se oggi mi trovo qui è perché l’ho capito. Lo vede quel bestione grigio scuro? Sa perché voglio comprarlo a scatola chiusa? Perché l’unico desiderio di mia moglie era quello di avere una macchina grande per fare dei piccoli viaggi in montagna, io lei e il bambino. Sa, quelle cose che decidi un giorno per l’altro. Le escursioni, la natura. Eravamo sposati da cinque anni, e in tutto quel tempo non le avevo mai concesso una cosa del genere. Mai. Pensavo solo al lavoro. Non a lei e a nostro figlio. Al lavoro”. Rachele lo fissava, senza parole ma con la testa piena di pensieri. “E com’è finita?”, chiese. “E’ finita che abbiamo parlato, io mi sono cosparso il capo di cenere e siamo tornati più uniti di prima. Non saremo la coppia del Mulino Bianco ma ci amiamo ancora moltissimo”. 

 

Rachele fece un respiro e spense il computer. Quel ragazzo non era “uno dei suoi”. E chissà quanti, tra quelli che aveva creduto di riconoscere negli anni, non lo erano. “E quindi, lei che è così saggio e in vena di confidenze, che mi dice di un’amica che tradisce il marito, se il marito è anche un grande amico della qui presente? Come dovrei comportarmi? Perdonare e comprarle un fuoristrada?”. Il ragazzo la fissava con attenzione. “Mi ha raccontato tutto durante una vacanza al mare. Io lei, mio marito e il suo. Se lo immagina?”. “Al mare dove?”, aveva chiesto lui. “Isola d’Elba. Il posto più bello del mondo. Ci andiamo tutte le estati. Andavamo, anzi”, aveva risposto cupamente Rachele, tornando a guardare il computer. Il ragazzo lasciò quella confidenza sospesa, senza aggiungere altro. “Fatemi avere un preventivo, il mio indirizzo email è questo”, disse alzandosi e porgendole un biglietto da visita. Poi salutò e uscì dalla stanza. Rachele era rimasta a fissare la porta chiusa provando un vago senso di delusione, poi si era rimessa a lavorare. 

 

Due giorni dopo, poco prima di chiudere tutto per tornare a casa, un corriere era entrato in negozio. “C’è un pacco per la signora Rachele Raffagli”, aveva detto. Stupita, si era alzata ed era andata a ritirare una piccola scatola di cartone. Agitandola, si capiva che dentro c’era qualcosa di solido, pesante. Mise il pacco sulla scrivania, tagliò lo scotch con un tagliacarte e tirò fuori una splendida confezione color verde acqua. Acqua di profumo Acqua dell’Elba. Quella fragranza buonissima che un paio di volte Ettore le aveva anche regalato a Natale. Nella scatola c’era un bigliettino. “Perdonare è fondamentale. Le persone che amiamo a volte ci deludono, ma la domanda è: siamo disposte ad amare anche i loro difetti? Ah, dimenticavo: questa bottiglietta non è per lei, ma per la sua amica. È il fuoristrada che vi riporterà di nuovo in vacanza insieme. Un caro saluto. Firmato: uno che ha avuto una seconda possibilità”. Rachele posò il cartoncino e fissò il muro. In fondo, se Ilaria non amava più Gianni non poteva farci niente. Magari, pensò, la sua amica ora aveva davvero bisogno di una mano. E se stava facendo un errore, fosse anche il più grande della sua vita, non stava a lei giudicare. Doveva solo starle vicino, come aveva sempre fatto. “Posso uscire un’ora prima?”, aveva chiesto al capo. “Devo portare un regalo a un’amica che non vedo da un po’. Ah, e quel cliente che è venuto l’altro giorno, per il fuoristrada grigio… La sua pratica la seguo io, se non vi dispiace. Mi sa che gli devo un favore”.




Il Formidabile Duo

Negli ultimi anni dicembre non era stato un mese facile per lei. Da quando i genitori erano venuti a mancare, il periodo dell’anno dedicato alle luci e al raccoglimento in famiglia la riempiva di tristezza, ricordandole una realtà tanto amara quando ineluttabile: una parte della sua vita non c’era più e per lei, 45enne figlia unica, si apriva un nuovo ciclo, fatto di routine e abitudini da rodare. A cominciare proprio dalle feste. Gli ultimi due Natali li aveva trascorsi con la famiglia del compagno, circondata da parenti cordiali ma sconosciuti, e tornare al lavoro a gennaio era stato quasi un sollievo. Aveva accolto quindi con sincero entusiasmo l’arrivo di quella nuova collega, assunta da poco e destinata a condividere con lei l’ufficio. “Finalmente una ventata di freschezza”, aveva pensato Marianna stringendo la mano a quella ragazza così giovane e solare.

“Piacere, mi chiamo Livia”, le aveva detto l’altra con un sorriso, ed era bastato quel breve scambio di battute per far sentire entrambe a proprio agio. Livia veniva dalla Toscana, era approdata a Milano da qualche anno per seguire il fidanzato, ingegnere presso una multinazionale. Ogni mattina si sedeva alla scrivania e riempiva l’aria di una fragranza marina e fruttata che Marianna aveva amato fin da subito.
“Si chiama Acqua dell’Elba Classica
”, le aveva detto. “Un profumo che mi ricorda l’estate, i luoghi delle mie vacanze”. Tra loro era scattata una scintilla positiva: entrambe svelte e precise col computer, si occupavano dell’amministrazione con facilità, scambiandosi consigli e confrontandosi. Dopo poche settimane per tutti erano già “Il formidabile duo” e quella complicità, maturata in modo così spontaneo e naturale, così in fretta, un po’ le imbarazzava e un po’ le inorgogliva. La verità è che, malgrado la differenza d’età di oltre dieci anni, per Marianna, Livia non era solo una collega ma un’amica, e la cosa era reciproca. Ogni giorno in pausa pranzo il barista le aspettava, sapeva che le due dipendenti dell’azienda del terzo piano sarebbero scese e avrebbero ordinato un caffè e un ginseng, consumandoli sedute al tavolo accanto alla finestra, chiacchierando del più e del meno. Nessuna delle due aveva figli ma entrambe erano fidanzate: amavano viaggiare, andare al cinema, uscire con gli amici. Gli argomenti non mancavano mai, così come le risate. Osservandole, l’uomo si chiedeva se avesse mai avuto la fortuna di conversare con tanta facilità con qualcuno e la risposta che si era dato erano, i suoi amici dopo qualche birra diventavano molesti e finivano col discutere di politica e guerra, facendogli passare la voglia di parlare.

Marianna e Livia invece avevano il dono della leggerezza e passavano da un argomento all’altro senza mai inciampare nel pettegolezzo o nella polemica, e soprattutto – ed era questa la cosa difficile – senza mai essere superficiali. Fuori dall’ufficio non si incontravano, ognuna aveva il proprio giro di amici, ma forse – questo pensava Marianna – il bello del loro rapporto stava lì, nel piacere di incontrare ogni giorno qualcuno con cui poter essere se stessa, ripartendo da zero, senza mescolare la vita privata con quella lavorativa. Livia sapeva molte cose di lei e lei ne sapeva altrettante di Livia, ma quello spartiacque tra “dentro” e “fuori” permetteva a entrambe di rilassarsi e lasciare fuori dall’ufficio il fardello che la vita quotidiana inevitabilmente porta con sé. Mese dopo mese, alla fine era tornato dicembre, e con esso il conto alla rovescia verso il Natale. Anche quell’anno l’avrebbe trascorso con la famiglia del suo compagno, e l’idea di incontrare quei parenti cordiali, sempre meno sconosciuti, l’atterriva meno dell’anno prima.

Impegnata a decorare l’albero e disporre per la casa candele profumate, ripensava all’anno appena trascorso, a quanto fosse stato meno triste e malinconico del precedente, e a quanto il dolore per la perdita dei genitori avesse cominciato a lasciare spazio alla serenità. La sua nuova vita, senza di loro, non era poi male: aveva un lavoro che le piaceva, un compagno che amava, e stava decorando la sala con fiori e arance essiccate. La fragranza di quelle composizioni le aveva fatto tornare in mente il profumo di Livia, dolce e delicato, come la loro amicizia. Era un profumo che sapeva di mare, di estate, di momenti di solarità, così indispensabili durante il grigiore dell’inverno. Aveva capito che se si sentiva leggera e propositiva era grazie a quella ragazza, al dono della sua compagnia, e sentiva il bisogno di ripagare quel debito di gratitudine con un regalo.

Era uscita di casa ed era andata in profumeria, e il giorno dopo si era presentata a lavoro un po’ prima della collega, lasciandole sulla scrivania un regalo: il Profumatore Acqua dell’Elba Note di Natale, a base di arancia e gelsomino, le note che riempivano la sua sala da pranzo. Quando Livia era arrivata e aveva visto il pacco infiocchettato era scoppiata a ridere: “Non so cosa m’hai comprato – le aveva detto col suo accento toscano – ma anch’io ho qualcosa per te! Aprilo il giorno di Natale, eh! Mi raccomando”, aveva concluso mettendole in mano un pacchettino e un biglietto. Marianna aveva atteso e scartato il pensiero proprio il giorno di Natale, tra una zia e una cugina del compagno, riflettendo su quanto fossero in realtà simpatiche quelle persone. “Ora apro il regalo della mia collega toscana, vediamo un po’ cos’è!”, aveva detto ad alta voce tra la curiosità di tutti.

Avvolto in una carta color verde acqua marina, c’era un flacone del profumo Acqua dell’Elba Arcipelago, con un biglietto: “Non è uguale al mio, ma è bono uguale! Grazie per la tua bella amicizia… è il dono più grande che ho ricevuto quest’anno”.   



I fiori del mare

Mancavano ancora tre ore al decollo dell’aereo, un arco di tempo irrisorio se confrontato con i mesi che aveva trascorso a New York, ma che adesso le sembrava infinito. Tre ore, ancora tre lunghissime ore, e poi finalmente il conto alla rovescia sarebbe cominciato. Si sarebbe seduta accanto al finestrino, nel posto che lei stessa aveva scelto, non troppo in fondo, non troppo a metà, avrebbe sistemato il bagaglio a mano nella cappelliera e poi avrebbe aspettato con pazienza che tutti prendessero posto, gustando ogni attimo di quella cerimonia laica e sempre uguale che era la partenza di un volo internazionale. Avrebbe osservato con attenzione le istruzioni di sicurezza, si sarebbe allacciata la cintura e poi avrebbe chiuso gli occhi. Al momento del decollo avrebbe trattenuto il fiato, assaporando la vertigine che ogni volta la avvolgeva da capo a piedi come si fa con i sapori forti e deliziosi: il wasabi, il peperoncino, lo zenzero.

Avrebbe pensato a sua madre, alle sue mani fredde che le spalmavano la crema solare d’estate, a suo padre, alla pazienza con la quale da piccola la aiutava a fare i castelli di sabbia, e a suo fratello, che per farle dimenticare le delusioni d’amore la portava in vespa a respirare il profumo del mare. Avrebbe scacciato via la paura abbracciandoli tutti e tre con i ricordi: l’aereo avrebbe raggiunto il punto più alto del cielo, i motori sarebbero tornati silenziosi, la voce del comandante avrebbe augurato a tutti buon viaggio. E lei si sarebbe di colpo sentita felice. Non vedeva l’ora di stringere a sé la sua famiglia e forse, pensava, avrebbe potuto ingannare quelle lunghissime tre ore comprando loro un regalo di Natale. La frenesia della Grande Mela e le responsabilità imposte dal programma del Master l’avevano distolta da tutto ciò che non fosse legato allo studio, lo shopping era passato in secondo piano. Per sei mesi le sue giornate avevano seguito un percorso docile e lineare, fatto di routine e momenti piacevoli, che certo avrebbe ricordato volentieri e per sempre. La colazione al bar sotto casa, con caffè lungo e bagel al cinnamon, l’attesa in metropolinata con la sua musica preferita nelle orecchie, la camminata fino all’ingresso della Columbia University, circondata da foglie rosse e giallo oro. E poi i giardini, gli edifici in stile inglese a mattoncini, l’aula studio piccola e calda, i compagni di corso cordiali, provenienti dalle zone più disparate degli States e del resto del mondo.

Non era sola, non si era mai sentita sola: New York l’aveva accolta nel migliore dei modi, aiutandola a trovare una buona stanza, degli ottimi insegnanti, degli amici in gamba. Ma la luce della sua casa di campagna in Toscana, il caos dei pranzi con i parenti la domenica, la pressione delle zampe del suo cane puntate sul petto, il profumo del ragù di sua madre, il rumore che faceva suo padre trafficando con gli attrezzi in garage: tutto questo, doveva ammetterlo, le mancava, le era mancato ogni giorno, e di questo attaccamento si era anche un po’ vergognata. “Sono una sempliciotta? Una mammona incapace di staccarsi dalla famiglia?”, si era chiesta. Poi, durante uno dei suoi lunghi pomeriggi di studio, distogliendo gli occhi dal libro per portarli oltre il vetro, aveva trovato la risposta. Un cartello pubblicitario chiedeva ai passanti: “Perché cerchi il paradiso altrove, quando è già dentro di te?”. Non ricorda cosa pubblicizzasse la scritta, ma il messaggio era arrivato. Aveva una famiglia gioiosa, straordinaria nella sua semplicità. Che male c’era nel sentirne la mancanza? Ancora due ore la separavano dalla partenza, era giunto il momento dei regali. Era cresciuta sul mare ma New York le aveva insegnato che anche la neve può essere romantica e aiutarti a creare il tuo mondo immaginario, fatto di storie ovattate che si consumano al calore di un camino o nella luce calda di una candela. Avrebbe portato un po’ di quella atmosfera a casa, comprando un flacone di Profumatore per Ambiente Note di Natale Acqua dell’Elba, con note di arancia, mandarino, miele e cannella. Un dono per tutta la famiglia, da condividere anche con i parenti, proprio nel giorno di Natale. Ma non era abbastanza.

I suoi le avevano pagato quel Master, regalandole un sogno, e suo fratello l’aveva sostenuta in tutta la fase preparatoria, quando studiava giorno e notte per superare i test di ammissione. Voleva dirgli grazie, dimostrargli quanto loro fossero la colonna portante della sua vita. Lo aveva capito a fondo proprio durante quel viaggio: un giorno sarebbe diventata qualcuno, un futuro radioso l’aspettava, ma loro sarebbero stati per sempre la sua insostituibile squadra. A suo fratello avrebbe preso un Eau de Parfum Sport Acqua dell’Elba, con profumo di limone, bergamotto e pepe, e a suo padre un Eau de Parfum Essenza Uomo Acqua dell’Elba, con pompelmo, cisto di mare e salvia. Il mare, che li aveva visti crescere e giocare, sarebbe stato un bel testimone del loro Natale. E a sua madre, punto di riferimento di ogni cosa, l’isola più importante dell’arcipelago, avrebbe invece regalato l’Eau de Parfum Arcipelago Donna, con le note fruttate di limone, mandarino e albicocca. Quella mano vellutata che le spalmava la crema e la abbracciava teneramente, quel collo morbido nel quale affondare quando la vita era troppo dura, d’ora in poi avrebbe avuto un profumo speciale: quello del mare e dei suoi fiori spontanei, quelli che sbocciano nella sabbia e ti seguono col pensiero ovunque tu vada, anche quando ti allontani, anche quando affondi i piedi nella neve, riempiendoti di bellezza e di coraggio, per sempre.